Voglio che tu vada in una trance così profonda che ti sembri di essere una mente senza corpo, che ti sembri che la tua mente galleggi nello spazio e che galleggi
nel tempo. E voglio che tu scelga un momento nel passato in cui eri una bambina piccola piccola. E la mia voce ti accompagnerà.
(Milton H. Erickson)
I gatti sono gli animali domestici più presenti nelle nostre case. Diverse sono le ricerche scientifiche che confermano che la convivenza con il felino più diffuso al mondo possa contribuire al nostro benessere fisico e mentale. Uno studio australiano (Cheryl M. Straede Richard G. Gates M.D., 2015), ad esempio, certifica che i proprietari di un gatto hanno una migliore salute mentale rispetto a chi non ne ha. Si sentono meno nervosi, più fiduciosi e addirittura dormono meglio. Anche i bambini ne traggono grandi benefici. Uno studio che ha coinvolto più di 2.200 ragazzini scozzesi ha dimostrato che più avevano un legame stretto con il gatto, migliore era la loro qualità di vita. Un altro studio (Dennis C. Turner, Gerulf Rieger, Lorenz Gygax, 2003) ha confermato che chi convive con un gatto vive meno frequentemente emozioni negative rispetto a chi vive con il proprio partner. Anche i tanto amati video con i gattini che spopolano su internet migliorano l’umore di chi li guarda. È noto che i gatti siano in grado di abbassare i livelli di stress agli umani che vivono con loro: da una parte basta pensare all’effetto calore che ci regalano quando scelgono di accoccolarsi vicino a noi nelle fredde sere d’inverno. Un rapporto uomo-animale, caratterizzato da un tono tranquillo, rassicurante, positivo e di conseguenza rilassante, interviene sulla produzione di adrenalina e di altri ormoni corticosteroidi, con il risultato di una minor pressione arteriosa, ritmi cardiaco e respiratorio più lenti. Diverse ricerche hanno dimostrato come la vicinanza di animali procuri dei benefici effetti sulla pressione arteriosa e sull'apparato cardiocircolatorio. Uno studio condotto da Erika Friedmann (1983) ha rilevato che persone che avevano avuto un infarto e che possedevano un animale sopravvivevano decisamente di più rispetto ad altre persone infartuate, ma che non possedevano alcun animale. I dati rilevati dalla ricercatrice hanno evidenziato che basta la presenza di un gatto tranquillo e rilassato nella stanza, per attivare nei soggetti diverse reazioni fisiologiche, quali: • Diminuzione della pressione sia diastolica che sistolica • Regolarizzazione del battito cardiaco • Regolarizzazione e distensione della respirazione • Rilassamento generale nel tono muscolare e nelle espressioni del viso Inoltre, hanno dimostrato che accarezzare il pelo di un gatto oltre che regolare la frequenza cardiaca, inducendo rilassatezza che a sua volta provoca un abbassamento della pressione sanguigna, contribuisce ad aumentare la coscienza della propria corporalità, essenziale nello sviluppo della personalità. Risultati simili sono stati ottenuti da studi effettuati dal NHANES II (National Healt and Nutrition Examination Study), condotto in tutti gli Stati Uniti e analizzando i dati di follow-up pari a 13,6 anni, (Hypertension, 2001) dai quali è emerso che possedere un cane e, ancor di più, un gatto, aumenta la probabilità di ridurre l’ipertensione da stress. Nel 2009, in modo analogo ma più dettagliato, è stato pubblicato sul Journal of Vascular and Interventional Neurology uno studio che ha dimostrato sperimentalmente la capacità dei gatti di ridurre in modo significativo la mortalità per infarto e per ictus degli esseri umani con i quali convivono. La cosa importante è che stata trovata un’associazione indipendente tra l’avere un gatto e ridurre la mortalità per infarto, o per altri accidenti cardiovascolari. L’aggiustamento dei fattori confondenti ha dimostrato che il Rischio Relativo (RR) significativamente più basso di morte per infarto del miocardio nei partecipanti che avevano avuto in passato un gatto rispetto ai pazienti che non avevano mai posseduto un gatto. Si è inoltre registrato un aumento del rischio di morte per malattie cardiovascolari tra i partecipanti senza gatti. Tuttavia, non è stato statisticamente evidenziato un ruolo nella prevenzione degli ictus. Una ricerca dell’Università della Pennsylvania ha dimostrato che chi vive con un gatto ha meno mal di testa, raffreddori e mal di schiena rispetto a chi non ce l’ha. Rispetto ai possessori di cani, i “gattari” tendono a essere più aperti verso le nuove esperienze. Sono però meno estroversi e meno amichevoli
Bibliografia essenziale Cheryl M. Straede Richard G. Gates M.D. (2015). Psychological Health in a Population of Australian Cat Owners, Pages 30-2; Anthrozoös , A multidisciplinary journal of the interactions between people and other animals
Dennis C. Turner, Gerulf Rieger, Lorenz Gygax (2003). Spouses and cats and their effects on human mood. Anthrozoös 16(3):213-228
Costa, P. T., Fleg, J. L., McCrae, R. R. and Lakatta, E. G. (1982). Neuroticism, coronary artery disease, and chest pain complaints: Cross-sectional and longitudinal studies. Experimental Aging Research 8: 37–44.
Il silenzio attivo è una strategia comunicativa attraverso la quale si sceglie volontariamente di non parlare, per ottenere qualcosa da qualcuno. Non ha carattere punitivo e non è una reazione emotiva. Infatti, non significa dire ai figli 'Non ti parlo più', ma si tratta di un’asserzione che i genitori condividono creando un distanziamento che permetta ai ragazzi di vedere cosa stanno realmente facendo. In letteratura si trova molto materiale circa l’utilità della sospensione drastica di comunicazione nel momento in cui i figli adolescenti hanno comportamenti aggressivi che violano il rispetto che occorre sia connaturato alla relazione coi genitori. Il silenzio attivo è una soluzione che possiamo adottare di fronte alla trasgressione di regole, perché segnala l'oltrepassare del confine del limite educativo su cui i genitori hanno titolarità. Inoltre, l’arduo compito dei genitori è sicuramente quello di arginare soprattutto gli atteggiamenti più indisponenti e maleducati, senza contare ovviamente quelli pericolosi assolutamente da scongiurare. Un figlio ribelle non è facile da gestire, soprattutto quando entrambi i genitori lavorano tutto il giorno e sono presenti anche altri figli. Spesso infatti, il figlio adolescente fa paragoni con i fratelli e sorelle più grandi o più piccoli, innescando vere e proprie bombe ad orologeria. Stando alle indicazioni degli psicoterapeuti, molto spesso decidere volontariamente di stare in silenzio, aiuta a risolvere situazioni tese. L’adolescente non ha ancora la capacità di litigare in maniera costruttiva e mantenendo il rispetto nei confronti dell’altro. Spesso dunque alimentare una litigata significa portarlo inevitabilmente a usare parole sempre più pesanti e offensive, nel solo intento di prevaricare. Il genitore (che dovrebbe essere l’adulto della situazione) deve mantenere il controllo, non cedere alle provocazioni, ma neppure soccombere. Resta fermo il divieto imposto, il rimprovero o la punizione e non si litiga più. Si smette di parlare e ci si reca in un’altra stanza (se ad esempio è quella del ragazzo) oppure si invita il proprio figlio a recarsi in camera sua. Questa tecnica ha come obiettivo quello di dare spazio al ragazzo, per permettergli di rientrare in sé, magari pensando a ciò che effettivamente ha detto o fatto. Non bisogna fare annunci di tipo plateale, per dichiarare di non voler parlare più con lui. Semplicemente si sta in stanze diverse per un po’ e, se ci si incontra, allora si evita di rivolgergli la parola. Infatti, è evidente che questa tecnica, affinché funzioni, duri pochi minuti per bambini piccoli, e qualche ora per adolescenti. Di solito fa molta presa sui figli di 11-15 anni, che ancora sono combattuti dalla dipendenza che sentono di avere con i genitori. Man mano che il figlio si avvicina alla maggiore età invece, questo metodo potrebbe diminuire la sua efficacia. Ma se si adotta già a partire dalla pre-adolescenza, allora si può sperare che sortisca buoni risultati anche in seguito. La scuola di Palo Alto e i vari studi sulla comunicazione, ormai da tempo sottolineano che il silenzio è anch’esso una forma di comunicazione. Indica apertura o chiusura e va usato nelle giuste dosi. Ebbene sì, il silenzio infatti ha anche delle controindicazioni. Ricorrere a questa sorta di arma a sproposito infatti può condurre a delle spaccature profonde nel rapporto. Non va utilizzato ad esempio per ogni piccolezza né tantomeno come conseguenza di qualcosa di cui si è venuto a conoscenza, ma di cui il ragazzo non è al corrente. Solo se il figlio arriva agli insulti nel corso di una discussione oppure non mostra alcun pentimento o rimorso, dopo un evento grave che invece lui stesso ha provocato, allora è il caso di ricorrere a questa tecnica per prendere le distanze da lui e dal suo comportamento. A tal proposito, infine, è bene sottolineare che, se serve una punizione, questa non dovrebbe mai essere “restrittiva” semplicemente perché non funziona. Ad esempio, privarlo del cellulare oppure non mandarlo all’allenamento sportivo non sortisce effetti se non quello di aumentare la sua rabbia e insofferenza. Meglio invece ricorrere a punizioni “aggiuntive”, con lo scopo di responsabilizzarlo, ad esempio imponendo di occuparsi della pulizia dei piatti, della cura quotidiana dell’animale domestico, di gettare la spazzatura quotidianamente e similari. Il silenzio attivo deve rappresentare qualcosa che viene vissuto come grave, non come una routine comunicativa. Il ragazzo deve, in quell'occasione, riflettere e stabilire un contatto con quello che è successo. Deve suscitare una sorpresa nei figli che non si aspettano tale reazione dei genitori. Il silenzio favorisce l'osservazione, la percezione del mondo circostante, la sensibilità al suono e l'ascolto di sé stessi. È importante allora permettere al figlio di vivere anche questa dimensione, preservando sempre nei suoi confronti una relazione di accoglienza e supporto. Detto ciò è importante non reagire agli atteggiamenti che possono seguire da parte del figlio. Il genitore non deve manifestare rabbia. Lo scopo del silenzio attivo è quello di abbassare la tensione emotiva ed evitare che la rabbia dilaghi.
Spesso sentiamo parlare di un particolare fenomeno ancora non molto conosciuto, è un fenomeno definito di isolamento sociale e più propriamente indicato con un termine giapponese: “hikikomori”, che significa appunto “stare in disparte”. Questo fenomeno definito in clinica come “sindrome di hikikomori” è un fenomeno “invisibile”, come lo sono le persone, perlopiù adolescenti, che ne vengono colpiti, è caratterizzato dalla solitudine e reclusione volontarie. L’isolamento costituisce una sorta di difesa in quanto la persona percepisce il mondo esterno come ostile. Viene definito invisibile perché le persone che ne vengono colpite si rinchiudono tra le quattro mura della propria camera da letto rifiutandosi di uscire, di vedere gente e di avere rapporti sociali. Nella loro stanza leggono, disegnano, dormono, giocano con i videogiochi oppure navigano su Internet. Il fenomeno è poco conosciuto, ma non è stato scoperto di recente. Il primo ad individuare questa “sindrome sociale” è stato lo psichiatra giapponese Tamaki Saito nel 1998, quando difronte al primo caso lo definì inizialmente come “Sindrome di Apatia”. Egli individuò questo “fenomeno” basato sull’autoreclusione, che colpiva i giovani adulti per un periodo pari o superiore a 6 mesi, i quali non avevano alcun tipo di relazione sociale e non svolgevano nessun tipo di attività sociale. Quali sono le caratteristiche principali dell’Hikikomori? Come abbiamo detto l’hikikomori è un meccanismo di difesa che viene messo in atto dalla persona come risposta alle crescenti pressioni di realizzazione sociale, ed in particolare da coloro che appartengono a società capitalistiche più sviluppate. Le pressioni che possono nascere sulla persona possono essere diverse, ad esempio dovute agli ottimi risultati scolastici, alle realizzazioni personali o al raggiungimento di obiettivi molto elevati e poco realizzabili, per questo la persona si trova ad affrontare una sfida enorme, cioè colmare questo divario che si crea tra realtà e aspettative; dei genitori, educatori-insegnanti e amici. La mancata riuscita nel colmare questo divario troppo ampio, determina nella persona situazioni di impotenza e fallimento e scatta così il rifiuto per tutto ciò che ha creato queste aspettative e questa sfida; scatta il rifiuto sociale! La persona si crea una sua zona di confort e per paura di abbandonarla si immerge in un completo isolamento sociale chiudendosi nella propria stanza per periodi molto lunghi e sviluppa un profondo desiderio di stare sola e una generale apatia verso gli altri. L’isolamento inizia gradualmente, chiudendo tutti i canali di comunicazione, si chiude per giorni in camera, poi per settimane e così via, fino a trascorrere da sola anni interi. Le persone con la sindrome dell’isolamento sociale hanno contatti con il mondo esterno solo mediante i dispositivi elettronici e nelle forme più gravi non sviluppano neanche questo canale di comunicazione. Quali sono i primi segnali di un hikikomori? I primi segnali arrivano generalmente nel periodo adolescenziale e i momenti critici li possiamo fissare in due momenti diversi e significativi: inizio e conclusione della scuola secondaria superiore. All’inizio della scuola superiore, in questa particolare fase della vita, per l’adolescente si apre il primo vero confronto con i nuovi compagni e con i nuovi professori che dovrà durare per cinque anni, successivamente alla conclusione del percorso di istruzione invece, si trova a dover affrontare la scelta fondamentale che dovrà segnare il suo percorso di vita (lavoro? Università? Ecc..) Dalle assenze a scuola sempre più frequenti e prolungate può derivare un importante segnale di avvertimento nei casi di hikikomori. Altri segnali di allarme possono essere:
• l’alterazione dei ritmi circadiani, fino ad arrivare all’inversione del ritmo sonno-veglia • l’auto-reclusione, nella propria camera da letto • trascuratezza nell’igiene personale • preferenza nello svolgere attività solitarie
Hikikomori provoca oscillazioni biologiche dell’organismo, ad esempio le persone dormono il giorno passando la notte ai videogiochi. Consumano i pasti fuori orario senza controllo alimentare, mangiano cibi precotti o scatolati ed in modo veloce. L’autoreclusione nella propria camera da letto li porta a trascurare l’igiene personale, accumulando rifiuti intorno a sé, la repulsione verso la società è così forte che non escono neanche a gettare i rifiuti. Le uniche attività che vengono svolte dalla persona sono solo quelle solitarie. Quali sono le cause che spingono a diventare hikikomori? Le cause possono essere diverse e ancora non ben definite del tutto. Sicuramente alla base c’è una fragilità per la quale la persona prova dolore e disagio sociale in certe situazioni e contesti, le cause quindi possono essere: sociali, scolastiche, familiari e caratteriali. Dagli studi effettuati alcune ipotesi affermano che sia la tecnologia a far perdere a queste persone il contatto con la realtà, mentre altri ritengono che a dar luogo a questo fenomeno siano fattori socio-economici oppure le eccessive pressioni da parte della famiglia, dovute alle aspettative che i genitori possono avere nei confronti dei propri figli. Questo tipo di aspettative induce i figli in una prima fase ad interrompere la comunicazione coi genitori e in una seconda fase anche con il mondo esterno. I ragazzi hikikomori sono molto intelligenti, sensibili e allo stesso tempo introversi, questi aspetti caratteriali impediscono loro di stabilire rapporti duraturi con gli altri e di affrontare difficoltà con costanza e tenacia nonché di superare con efficacia le delusioni che si possono presentare nella vita di tutti i giorni. Per quanto riguarda l’ambito familiare, ad esempio nelle esperienze nipponiche, si registra come causa l’assenza emotiva del padre e l’attaccamento eccessivo che viene sviluppato con la madre. È probabile che la sola mancanza affettiva di un genitore e l’eccessivo attaccamento all’altro, al di là del genere, possa sempre costituire una causa per l’insorgere di un disturbo hikikomori. Come abbiamo detto Il rifiuto della scuola è uno dei primi campanelli d'allarme dell'hikikomori. L'ambiente scolastico viene vissuto in modo particolarmente negativo e la persona tende all’isolamento. Dietro questi comportamenti spesso si cela una storia di bullismo. Anche per quanto riguarda le cause legate agli aspetti sociali, abbiamo già accennato in apertura di articolo come gli hikikomori abbiano una visione una visione molto negativa della società, dovuta particolarmente alle pressioni inerenti la realizzazione sociale derivanti dalla stessa società in cui vivono. Tali pressioni assumono livelli così elevati da far ripudiare loro la stessa società. A fronte di ciò i loro coetanei continuano la loro vita, sociale e di studi fino a realizzarsi socialmente e professionalmente e questo fa si che gli hikikomori rifiutino sempre di più il confronto con gli altri. Hikikomori non è una patologia! Spesso hikikomori viene scambiata come psicopatologia. Gli specialisti preparati a trattare questa sindrome ancora non sono molti e può capitare che questa sindrome venga scambiata con: - internet gaming disorder, dipendenza da videogiochi on-line. Come abbiamo detto in precedenza questa sindrome è stata individuata nel 1998, i video giochi on-line hanno avuto il loro esordio intorno al 2000, per cui gli hikikomori non dialogavano con l’esterno neanche in forma digitale e vivevano un isolamento totale. Oggi quantomeno la connessione on-line consente loro di avere un canale di comunicazione aperto. - depressione: come premesso hikikomori non è una patologia, è quanto è stato stabilito dal Ministero della salute giapponese, quindi definirla tale sarebbe una “semplificazione” e trattarla con i farmaci in una fase iniziale risulterebbe inutile. Il ritiro iniziale non ha origine da nessun tipo di patologia o disturbo mentale all’origine. - fobia sociale, agorafobia: abbiamo detto che hikikomori non è una patologia, quindi non può essere trattata come un disturbo d’ansia. E’ vero che c’è un rifiuto della società ma anche in questo caso alla base non c’è nessun disturbo a determinare il fenomeno. Tuttavia dopo un lungo isolamento la sindrome hikikomori può condurre il soggetto alla dipendenza da videogiochi o alla paura ad uscire di casa, ma queste possono essere conseguenze e non le cause. Come aiutare un hikikomori? Non sono molti gli specialisti preparati a trattare questa sindrome, tuttavia vari studi hanno dimostrato che è efficace un lavoro psicoeducativo individuale, basato sulla famiglia, cioè dove la famiglia acquisisce un ruolo centrale rispetto la definizione e risoluzione del problema. Un primo aspetto riguarda sicuramente le aspettative che la famiglia ha sul figlio: è bene che i genitori sostengano le scelte del figlio per trovare la sua strada, la sua realizzazione, la sua serenità, evitando di imporre le proprie scelte ritenendole le sole giuste per lui. Aiutarlo quindi vuol dire sostenerlo secondo i suoi desideri, le sue aspirazioni. Tuttavia c’è sempre un limite a questo aiuto, va bene con le parole, con i fatti nel caso in cui deve essere protetto da i pericoli, ma le scelte dovranno essere sempre di nostro figlio è importante che si assuma sempre le responsabilità delle proprie scelte. Rispetto ad una sindrome hikikomori i genitori, come abbiamo detto, è giusto che aiutino il proprio figlio, ma bisogna stare attenti a non avere effetti opposti a quelli desiderati. Il modo di agire non deve generare nuove pressioni altrimenti si spinge il soggetto ad ulteriore isolamento. È comprensibile che qualsiasi genitore voglia vedere il proprio figlio uscire rapidamente da uno stato di malessere, ma difronte a questi casi è richiesta molta pazienza, bisogna saper aspettare proprio per il bene di nostro figlio. Hikikomori rappresenta il sintomo di un problema, non è il problema, quindi la soluzione non sta nel convincere il soggetto ad uscire di casa. La cosa fondamentale è non trascurare questi aspetti, legati a comportamenti specifici di isolamento sociale, in quanto l’isolamento non è solo fisico ma è anche e soprattutto psicologico. Dott. Vanni Pippi
L’affetto è un elemento integrante e fondamentale di un’educazione sana e positiva dei nostri figli e dei nostri allievi. Riconoscere i loro sforzi e le loro conquiste quotidiane è indispensabile per favorire il loro sviluppo fisico, intellettivo ed emotivo. Educare è un compito gratificante e al contempo difficile e richiede pazienza, dedizione e abilità. L’educazione favorisce l’apprendimento, cioè la funzione mentale che consiste nell’acquisizione di nuove conoscenze. È il processo incaricato dello sviluppo e dell’attuazione delle proprie abilità. Attraverso l’apprendimento, noi esseri umani facciamo esperienza dell’osservazione, dell’assimilazione e del ragionamento. La formazione del comportamento e dei valori, la trasformazione delle abilità e l’accumulazione delle esperienze sono una conseguenza di ciò che impariamo. Maria Montessori a tal proposito diceva che: “L’educazione è un processo naturale effettuato dal bambino, e non è acquisita attraverso l’ascolto di parole, ma attraverso le esperienze del bambino nell’ambiente. L’ambiente deve essere ricco di motivi di interesse che si prestano ad attività e invitano il bambino a condurre le proprie esperienze.” Il progetto ComunicaMente oggi vi propone 8 delle migliori frasi per educare con amore, evidenziando come la comunicazione positiva e, nel caso specifico, le tecniche di rinforzo positivo, possono stimolare l’apprendimento. Il rinforzo positivo può essere utilizzato quotidianamente per rendere ottimale l’educazione accademica o scolastica, ma anche per stimolare buone abitudini igieniche e la collaborazione nello svolgere semplici compiti quotidiani e l’empatia. Il rinforzo positivo consiste nel premiare, elogiare e riconoscere positivamente atteggiamenti, pensieri e comportamenti desiderati. Ciò fa sì che il bambino assimili più facilmente i codici famigliari, culturali e sociali del nostro mondo; inoltre, stimola la sua creatività, la sua voglia di imparare e rafforza la sua autostima. Il rinforzo positivo non deve essere necessariamente di tipo materiale (ad esempio, un giocattolo, una caramella) o simbolico (ad esempio stelline o similari come la Token Economy), ma anche sociale, (ad esempio dimostrazioni di affetto, parole affettuose e gesti amorevoli). Soprattutto se provengono dai genitori, dai famigliari e dagli insegnanti. Al contrario, gli abusi fisici ed emotivi sono sempre controproducenti per l’educazione. I bambini esposti ad ambienti violenti in genere sviluppano disturbi del comportamento, difficoltà di apprendimento e di socializzazione. Ricordiamoci infatti che i bambini imparano osservandoci e che costruiscono la loro personalità e il loro comportamento sull’esempio dato dagli adulti che fanno parte del loro ambiente. Molti bambini ricevono un’educazione disfunzionale, un’affettività carente e pochi o nessun valore. Questo genera un vuoto enorme, difficile da colmare nella via adulta. Per questo è importante che diventiamo noi l’esempio di ciò che ci aspettiamo da nostro figlio, nipote o alunno. Un’ottima idea per cominciare è dirgli ogni giorno le frasi più adeguate e funzionali per educare con amore. “Ti voglio bene” È una frase semplice e per nulla scontata. Infatti è la più vera dichiarazione d’amore che un bambino può sentirsi dire. Inoltre, aiuta gli adulti a ricordare l’importanza di essere sinceri con i propri sentimenti. “Sei bellissimo” Anche se è un’esclamazione soggettiva, un bambino deve sentirsi sicuro del suo aspetto fisico per crescere in maniera sana e senza complessi. Deve essere elogiato quotidianamente e invitato a prendersi cura di sé stesso. “Mi fido di te” I bambini che hanno paura di deludere i genitori e/o gli insegnanti e hanno paura di fallire, sono insicuri e in genere presentano problemi di apprendimento e di socializzazione. È molto importante che il bambino capisca di avere il nostro appoggio e la nostra fiducia, per esprimersi e fare nuove esperienze. “Com’è andata?” Dimostrare interesse e empatia fa sì che il bambino si integri, voglia partecipare e contribuire all’ambiente famigliare e che si senta ascoltato. “Mi piace stare insieme a te” Dedicare del tempo esclusivo a vostro figlio e ai vostri allievi e godere della loro compagnia è essenziale per una vita famigliare e scolastica sana. È indispensabile dimostrare quanto apprezziate stare con loro. “Prepariamo insieme qualcosa: ad esempio un pasto o l’albero di Natale” Far partecipare gradualmente il bambino attività domestiche o extra-didattiche è uno degli elementi basilari dell’educare con amore e secondo valori positivi. Questo gli insegnerà a condividere le cose, assumersi le responsabilità e lavorare in squadra per raggiungere un risultato migliore. Inoltre, può essere anche una buona opportunità per lavorare sull’educazione alimentare. “Ci laviamo i denti insieme?” Un buon modo di insegnare al bambino a spazzolarsi i denti correttamente, è farlo insieme a lui. “Per favore e grazie” Le parole e i gesti propri della buona educazione e di un comportamento rispettoso si imparano tra le quattro mura di casa e a scuola. Ecco perché devono essere presenti nella vita quotidiana del bambino e il loro uso deve essere incentivato dagli adulti più vicini al bambino. È importante non dimenticare che siamo lo specchio dei nostri figli, nipoti e alunni. Per educare con amore non c’è bisogno che imponiamo una routine di manifestazioni di affetto né che ci facciamo condizionare. Sta tutto nel non ritardare o nascondere le espressioni, i gesti e la parte migliore di noi stessi. La cosa importante è avere il “focus” sul destinatario della nostra comunicazione, delle nostre attenzioni, senza pronunciare frasi fatte o prive di contenuto emotivo. Ricordatevi che per educare con amore l’ingrediente magico si trova nella spontaneità e che la comunicazione verbale deve essere sempre coerente con la comunicazione non verbale (espressioni, atteggiamenti, postura ecc.); come ci insegna ComunicaMente. Antonella De Luca - psicologo- psicoterapeuta Grosseto